Già nel ‘400, numerosi erano i bergamaschi attivamente presenti (scaricatori di porto, artigiani, bottegai, locandieri, soldati, operai) a Venezia, in Istria, a Genova, a Roma oltre in Austria e Francia. Lo ha ribadito pure il recente convegno tenutosi a Bergamo su "Zani, imprenditore della piazza europea". Da allora l'emigrazione di lavoratori dalle vallate orobiche non conobbe sostanzialmente sosta sino agli anni 60 del Novecento, allorché il "boom economico" moltiplicò nell'Italia del Nord i posti di impiego. Eppure nelle memorie dei più il fenomeno migratorio, cronologicamente, resta legato esclusivamente al periodo fra le due guerre mondiali e all'ultimo decennio dell'Ottocento (quando, stando alla nota ballata, la traversata per l'America costava cento lire). L'archivio del comune di Taleggio offre testimonianze dell'espatrio, avvenuto nella prima metà dell'Ottocento, di parecchi di quei valligiani, sulle orme degli avi. A quel tempo, la valle dell'Enna, perdute nell'età napoleonica le secolari prerogative di terra di frontiere (fra la Repubblica Veneta e il Ducato di Milano), rimaneva una minuscola isola geo-antropica ben dentro il Regno lombardo-veneto, provincia dell'Impero Asburgico.
La sua economia, tradizionalmente incentrata nell'agricoltura di tipo silvo-pastorale, non è in grado di dare occupazione a tutti i duemilaquattrocento abitanti. Parecchi dei quali, perciò, sono costretti a fare fagotto e a cercarsene una all'estero, stagionalmente o per sempre. L'estero, rispetto alla Lombardia di centocinquant'anni fa, iniziava a ovest e a nord ovest al di là del Ticino e del Lago Maggiore (Regno di Piemonte e Confederazione Svizzera); a sud, al di là del Po (Ducato di Parma e Piacenza); ma per trovarsi in terra straniera andando verso oriente, bisognava lasciarsi alle spalle il Danubio per centinaia di miglia, uscire dai domini dell'Imperatore e re e spingersi in quelli dello Zar di Russia o del Sultano di Costantinopoli. Gli emigranti bergamaschi, di norma, non arrivavano fin là. Per circolare all'interno dei territori austriaci era sufficiente la carta d'iscrizione d'identità mentre per espatriare occorreva il passaporto. Ecco, in proposito, un esemplare saggio di stile e di precisione della scuola viennese. "Le domande dei passaporti vengono pertrattate con tutta la possibile sollecitudine - chiariva una circolare diramate il 3 maggio 1851 dall'I.R. Comandante militare di Città (maggiore Von Neuwirth) ai Commissari distrettuali e alle Deputazioni municipali della provincia di Bergamo - tanto da questo Comando di Città e Delegazione Provinciale, quanto dall'Eccelso Supremo Comando Generale in Lombardia". Ciò ricordato, se la prendeva, l'altro ufficiale, con la "censurabile impazienza" di certi interessati che non si peritavano di rivolgere "indebite sollecitatorie istanze … perfino a Sua Eccellenza il Signor Conte Gyulsi, I.R. Generale d'Artiglieria (nonché, comandante supremo dell'armata austriaca in Italia durante la campagna del ‘59-ndr)". Di conseguenza, avvertiva, "sarà cura dagli II.RR. Commissari Distrettuali e delle Deputazioni Comunali di impedire che si rinnovi simile inconveniente, facendo all'uopo conoscere ai propri Amministrati la convenienza di produrre invece le loro istanze per passaporti possibilmente 8 giorni prima del momento in cui devono usare dei passaporti medesimi". Avete letto bene: otto giorni! In data 6 febbraio dell'anno successivo, il Vice delegato Provinciale di Bergamo (signor Dehò) trasmetteva, sempre agli uffici predetti, un dispaccio del Governatore civile e militare del Regno Lombardo – Veneto, feld-maresciallo Radetzky, ingiungente "la pronta riattivazione dei libretti di scorta o di viaggio per garzoni e operai di vari mestieri". In un successivo messaggio lo stesso funzionario precisava che i permessi in parola non erano rilasciabili "a giovani di studio di negozianti, a intraprenditori del lotto, ad inservienti di teatri, ad esercenti di professioni liberali e belle arti" nonché "a vetturarli, facchini, muratori, scarpellini, agricoltori, carbonai, borellai, pastori e simili … esercenti professioni le quali non si collegano strettamente ad un'arte per esercitare la quale dee il garzone mettersi allo stipendio di un capo fabbrica, o di una manifattura, o di una bottega, o di un negozio". In applicazione di un'altra ordinanza della Superiorità, il Commissario distrettuale di Zogno (dott. Alessandro Poli), sempre nel 1852, prescriveva alle Deputazioni municipali della sua giurisdizione - nella quale rientrava la Valtaleggio - che nei documenti di viaggio concessi" a merciaioli, arrotini, suonatori girovaghi, conciaiuoli, raccoglitori d'erbe" venissero indicati "i luoghi in cui (i medesimi) intendono di recarsi in modo che sia loro impossibile deviare dalle prefisse strade. Anche per l'entrata di cittadini stranieri nella "Monarchia" (come nelle cancellerie e nei pubblici uffici veniva anche chiamato l'Impero austriaco) vigevano disposizioni più severe che in passato. Ma - se occorre rammentarlo – siamo negli anni immediatamente successivi alla prima guerra per l'Indipendenza e alle insurrezioni di Milano, Brescia, Venezia. Comprensibile che polizia e "intelligence" imperial-rege stessero più che mai sul chi vive. Particolarmente nel loro mirino stavano i ceti alti, non a torto sospettati di simpatie irredentistiche (eversive, dal punto di vista di Vienna). Perciò non deve stupire se il Comando Militare di Milano raccomandasse agli uffici dipendenti la più scrupolosa attenzione nell'esaminare le domandi di passaporto "tanto per l'interno della Monarchia, che per l'estero "inoltrate" da persone agiate, nobili, avvocati, notai, sacerdoti eccetera". Ma questo non era il caso della stragrande maggioranza degli emigranti di Valtaleggio. Vediamone alcuni. Andrea Locatelli (1853) e Carlo e Pietro Martinelli (1854), carbonai, partono, rispettivamente per Grenoble e per il Caton Grigioni, "per l'esercizio di detta professione". Viaggiano a piedi, falcetto appeso alla cinta, il manico della scure che spunta dallo zaino. Alla stessa maniera lasciano il paese natio, diretti nel Ducato di Parma, i "borellai" (operai specializzati nella fluitazione del legname) Andrea Locatelli e Pietro Rebucini. E sempre, in quel giro d'anni, lo Stato Emiliano è meta pure di Giovanni Battista Pesenti, falegname, mentre Carlo Offredi, "giornaliero" (manovale), se ne va nel Tirolo. Nel numero dei "facchini giurati" in forza alla stazione della strada ferrata di Brescia vi è Carlo Antonio Scuri (1854). Battista Martinelli "tollaio" (idraulico), s'è stabilmente trasferito a Calasca (Piemonte). Pure Giovanni Scuri si trova tanto bene nel luogo d'immigrazione - Mesocco, nel Canton Ticino - che di tornare a Pizzino, dov'è nato, non vuole nemmeno sentirne parlare. Vi risiede da ventidue anni, è ammogliato e "carico di famiglia". Si guardi bene la Deputazione di Taleggio - si raccomanda alla medesima in una lettera (15 luglio 1851) - dalle "maliziose finzioni e imposture" del messo comunale di Mesocco, "appositamente mandato... a rilasciare delle carte per poter quindi privarmi de' diritti che la legge mi largisce... onde potermi naturalizzare svizzero". Spieghiamo: una legge promulgata dal governo elvetico concedeva la naturalizzazione agli immigrati, "purchè non... riconosciuti oppure accettati come cittadini dalla lor patria originaria". Le amministrazioni cantonali, a quanto si deduce dalla lettera dello Scuri, solevano avvalersi di tale condizione per impedire a forestieri e apolidi di prendere stabile domicilio nei rispettivi comuni. L'emigrazione dalla Val Taleggio presenta, però, in prevalenza carattere stagionale, come si nota dai mestieri che i suoi abitanti vanno all'estero a esercitare: boscaioli, "borelér", carbonai possono lavorare solamente dalla primavera all'autunno. Alla festa d'Ognissanti avveniva il grande rientro. Venti marenghi (quattrocento lire) erano ritenuti il frutto di un'ottima "campagna". Bernardino Luiselli Fra i sudditi lombardo-veneti particolarmente colpiti dalle norme restrittive imposte dall'Austria dopo i noti insurrezionali del 1848-1949 vi furono gli esercenti di mestieri ambulanti: merciaioli, filatrici, arrotini per circolare dovevano munirsi di apposito documento di viaggio con segnato l'itinerario. (dis. di L. Bettinelli) |