Qualche volta, quando si parla di montagna, riaffiorano, nei miei ricordi, tre episodi legati tra loro dall'ambiente – le montagne, appunto – e dal protagonista. Era arrivato nel nostro gruppo, intorno al 1937, per trasferimento di lavoro dei genitori, ed era un personaggio piuttosto strano. Grande e grosso, aveva già allora i capelli molto lunghi e setolosi, ciuffetti di peli neri dal naso e dalle orecchie, camminava strascicando i piedi con le punte all'interno, e quindi, come dicevamo allora, era un po' sciabalento. Nell'insieme era giustificato il soprannome con il quale, ci disse, lo chiamavano i compagni di prima: mammuth. In più c'è da dire che era il tipo più distratto, che mai avessimo incontrato: sembrava sempre impegnato a risolvere le equazioni di Einstein e la quadratura del cerchio.
Bene, a noi si presentò come un forte organizzatore di gite in montagna e infatti, poco dopo, propose di guidarci in una spedizione sciistica. Sapeva tutto, orari dei treni, della cremagliera, conosceva il rifugio, il costo dell'avventura, eccetera. Eravamo a marzo avanzato e quindi un po' scettici, ma la sua sicurezza ci contagiò. Primo incaglio: alla partenza della cremagliera, non avevamo abbastanza soldi per salire tutti. Gran consiglio e vittoria della solidarietà: o tutti o nessuno. Alè, tutti a piedi con zaini e sci in spalla su per stradoni, stradine, sentieri e prati. Di neve neppure una traccia, ma lui, di solito così assente, ci incitava e quindi si andava, si andava sempre più demoralizzati, stanchi e delusi. Poi il destino cambiò tutto: all'improvviso, in cima ad un prato scosceso, arrivammo a un pianoro perfetto, verde e morbido come velluto. Non ci furono parole, ci guardammo e uno di noi si chinò sullo zaino e tirò fuori un.... indovinate…. un football e, con gli sci che facevano da porte, incominciammo una partita accanitissima su un'erba che, sotto, era fango e addirittura acqua. Tornammo a sera; in treno ci guardavano con stupore, eravamo ragazzi di palta, sembravano i francesi di Napoleone alla ritirata di Russia. Da allora, il nostro nuovo amico non si chiamò più mammuth, ma "Beresina". In quegli anni frequentavamo, regolarmente, un rifugio fra grandi pascoli e spuntoni di roccia. Tutte le domeniche eravamo lì e ciascuno faceva dell'alpinismo come preferiva: c'era chi si arrampicava, chi camminava per ore e ore su per sentieri, canaloni e creste e c'era anche chi se ne stava spaparanzato al sole a vedere gli altri "duramente impegnati in parete", come si diceva regolarmente tra noi, anche se guardavamo qualcuno che, in fondo, stava soltanto venendo giù a "stompeche", che vuol dire a capriole, scivolate e balzi scimmieschi. Bene, quella domenica il tempo era proprio incerto e, quindi, si era quasi tutti dentro il rifugio a raccontarla su, davanti a qualche calice di rosso o di spuma quando la porta si aprì, come se fosse scardinata, e il nostro Beresina si precipitò dentro trafelato "Un cammello - urlava - c'è un cammello!". Momento di sorpresa. "Ma cosa dice, questo qui?" chiese qualcuno, e un gruppetto uscì, seguito subito da tutti gli altri. "Ma dov'è ‘sto cammello? Dov'è?". Tutti si rivolgevano al Beresina che, agitatissimo, guardava in alto, verso la lunga cresta erbosa. "E' andato in su, non ci sono dubbi, era un cammello con una gobba enorme, l'ho visto benissimo contro il cielo - farfugliava il Beresina - anzi, adesso che si penso non era un cammello, ma un dromedario. Sapete la differenza, il cammello viene dall'Asia ed ha due gobbe, mentre il dromedario è monogobba e viene dall'Africa. La presenza di un dromedario qui, sulle nostre montagne, è un fatto eccezionale, bisogna raggiungerlo e fotografarlo! Chi viene con me?". Nessuno si fece avanti, ma lui impavido, e da grande camminatore qual'era, ci guardò con una certa pietà e partì con la sua andatura sciabalenta che però, in salita, era efficacissima. Noi tornammo dentro e non pensammo più né al Sahara né alle sue carovane. Tuttavia quando, ore dopo, la porta si aprì e il Beresina comparve, tutti si volsero verso di lui, qualcuno gli mise davanti un bicchiere di rosso e gli disse: "Adesso racconta!". C'era poco da riferire. "Se non fossi sincero – disse – potrei raccontarvi quello che voglio, ma a voi dirò la verità. Non c'erano dromedari e non c'erano gobbe, né una né due. Era un grande cavallo che portava in groppa, rovesciato, uno di quegli enormi paioli per cagliare il latte. Che delusione, ragazzi". Inutile dire che, da quel momento, il nostro amico non si chiamò più Beresina, ma Dromedario. Anzi, per affettuoso diminutivo, il suo nome fu Drom. Per gli incredibili intrecci del caso, dopo anni e una lunga e spaventosa guerra io che ero capo-redattore di un quotidiano, fui incaricato dal direttore di inserire in redazione un praticante. Sembra impossibile, ma mi trovai davanti il Drom. Veniva dall'università, si era laureato in fisica teorica e doveva, in prospettiva, dirigere la piccola redazione scientifica del giornale. Abbracci e pacche sulle spalle. Lui non era cambiato, tranquillo, modesto e sempre in procinto di finire in un tombino aperto per studiare il cielo, dimostrò, per quanto riguardava il lavoro, una formidabile capacità di apprendimento. Non dovevate chiedergli di usare la macchinetta del caffè o di controllare la sua busta paga o di affrontare una qualsiasi piccola pratica quotidiana: era un disastro. Tutto andava liscio da mesi, quando mi accorsi che il mio nuovo redattore stava cambiando improvvisamente umore: era teso, preoccupato, distratto. E poiché ogni buon capo-redattore è molto simile a un allenatore di calcio, deve cioè badare, oltre che al gioco, anche a quello che si chiama lo spogliatoio, cioè la serenità dei rapporti nella squadra, così io lo presi sotto braccio e lo invitai a confidarsi. Tra molte esitazioni, abbandoni, pentimenti e cedimenti venne fuori finalmente che la domenica prima era andato in montagna e aveva dormito in un rifugio, anzi, in un bivacco molto primitivo, e si era trovato addosso molti parassiti, soprattutto nelle zone pelose del corpo. Non era solo preoccupato, era addirittura sconvolto e non sapeva cosa fare. Io, che già mi ero fatto una convinzione, del resto facilissima, sul tipo di parassiti che avevano assalito il Drom, presi una rapidissima decisione. "Lo sai - gli dissi - che il Carletto, il nostro direttore, ha fatto quattro anni di medicina prima di arrivare ai giornali? Bene, andiamo da lui. E' un amico fraterno, per me, e se vuoi ti ci accompagno". Tira e molla per mezz'ora e, finalmente, dice di sì. Incontro cordialissimo, addirittura affettuoso. Diagnosi: in termini scientifici "phthirius inguinalis", che per noi, senza arzigogoli, si traduceva in piattole: Niente da vergognarsi, sono cose che capitano in treno, in aereo, in certe baracche, nelle comunità, ovunque. Cura, sicura e facilissima: cospargere le parti interessate, un paio di volte al giorno, con un prodotto specifico, il Mom. Passano due giorni e, invece di migliorare, il Drom mi si sgonfia davanti agli occhi e mi chiede, anzi mi supplica, di portarlo dal direttore. Racconta che le cose vanno peggio e che comunque quella cura era molto imbarazzante, perché ungeva, impiastrava tutto e poi quel colore … Il direttore lo ascolta tranquillo, ma, quando si arriva all'unto e al colore, chiede al Drom di fargli vedere il prodotto. Il fisico sciabalento va nel suo ufficio e torna con una magnifica bottiglia in terracotta piena di Vov, che era, ed è, un concentrato di zabaglione, giallo come il più giallo dei cinesi. E con quello lui aveva nutrito e ingrassato i suoi parassiti. Che dire? Poco dopo, ci perdemmo di vista. Lui, conteso fra le università, ne scelse una e finì in cattedra mentre io, quasi contemporaneamente, cambiavo giornale. Quando mi ricordavo di lui, fra di me, gli affibbiavo un nuovo soprannome. Lo chiamavo Piattola. Tuttavia fui contento quando, anni dopo, i suoi allievi, a sua insaputa, lo avevano battezzato "il Genio", perché quello era l'unico titolo che, nel suo ambiente, avrebbe meritato. Caro ex Mammuth, ex Beresina, ex Drom ed ex Piattola, scusami! Anche per me sei diventato il Genio. Dimenticavo: dopo il tragicomico episodio del bivacco, dei parassiti e del Vov, il nostro amico aveva giurato e spergiurato che non sarebbe mai più ritornato in montagna. Balle! Ho saputo che, per anni, ci andava regolarmente, come quando eravamo ragazzi. Forse, adesso, si portava sempre al seguito un barattolo di Mom. Carlo Graffigna |