La casa «porticata et lobiata»
A questo confluire di sentimenti sacri nel luogo, fa quasi da controcanto il confluire di prestiti per raggiungere la somma necessaria all'acquisto della casa. Le ottocento lire da versare "entro la festa di Sant'Alessandro del 1617" vennero pagate il 30 settembre grazie ad un anticipo della suocera e ad un prestito sempre da lei garantito. Per le trecento lire pattuite a saldo, entro tre anni, Ambrogio Ceresa dovette chiedere altri prestiti, estinti definitivamente il 14 aprile 1632. Questa fatica a racimolare i soldi per pagare la casa "porticata et lobiata, plodis et tegulis coperta", questo concorrere della famiglia unita a far fronte all'impegno, questo debito che sempre ipotecava, con la casa, il futuro, dovette essere motivo di preoccupazione e di speranza, certo argomento di tante conversazione fra i genitori e di indiretto ammaestramento per i figli, almeno per quanto riguarda il desiderio e l'impegno d'essere in qualche modo d'aiuto. Caterina «diletta figlia» di Giuseppe Zignoni Soppravvissuta l'intera famiglia al terribile flagello della peste, che nel paese si portò via 230 anime su poco più di 500, la presenza di Carlo Ceresa a San Giovanni Bianco è documentata in quegli anni da "contratti" dei notai Giovanni Giupponi e Agostino Boselli. Fra le carte del primo, è stato rinvenuto il "contratto di matrimonio" del pittore con Caterina, «pudica e casta giovine madonna», «diletta figlia» unica di Giuseppe Zignoni di Grabbia e di Angelica Torni, originaria di Piazzalina. Volendo il padre «tenere ancora in casa sua et goderla, sinché piace a Dio, la diletta figlia» dispose che gli sposi andassero ad abitare alla Grabbia dove avrebbero trovato mobili e vestiti e «fornimento» necessario, obbligandosi a «spesar e nutrir...». Per quanto lo Zignoni desiderasse che gli sposi dimorassero nella sua casa «al ben et al mal», egli tuttavia s'impegnava a pagare al genero «messer Carlo Ceresa..., scudi cinquecento», nella malaugurata ipotesi che non potessero «habitare insieme per qualche disparer et disgusti». A Dio piacque che l'amorevole padre morisse il 30 marzo 1635, a soli 48 anni. Il 16 aprile dello stesso anno, come ormai stabilito, fu giorno di nozze, velato dalla tristezza del recente lutto. Testimoni due notabili del paese, Giovanni Maria Raspis e Marco Cagnis. Celebrante don Gerolamo Boselli. Undici figli: due preti, due pittori, un notaio, cinque angioletti... Gli sposi ebbero undici figli. Francesca morì a 27 anni, cinque andarono presto ad affollare la schiera di angioletti che il padre con affettuosissimo pennello andava dipingendo nelle sue tele. Degli altri cinque, due, Giuseppe e Giovanni Antonio, si dedicarono alla pittura; due, Giovanni Battista e Francesco, ben dotati come furono, poterono agevolmente percorrere la carriera ecclesistica; uno, Sebastiano, divenne notaio. Otto ebbero per padrino Martino Milesi, ricco possidente originario di Oneta, cognato del pittore per averne sposato la sorella Brigida nel 1639. I legami delle due famiglie, di battesimo in battesimo, si rinsaldavano poiché anche il Ceresa si prese l'onore di far da padrino a cinque dei figli di Brigida e Martino, quando il ruolo del padrino era sentito davvero come quello di secondo padre, ruolo che il Ceresa si assunse anche nei confronti di una figlioletta di Rocco Zignoni di Grabbia, di un figlio di Cristoforo Scandolera e di uno di Viviano Gervasoni. Dai freddi documenti esce dunque trepida la vita: quella degli affetti e la piccola storia di un tempo nel quale la famiglia era valore forte e molto rispettato, era prima e spesso unica scuola di vita, era piccola chiesa domestica dove il timor di Dio si accompagnava ad un forte senso di solidarietà e di religiosità. È da questo sentire che nasce negli abitanti di San Giovanni Bianco e delle contrade il desiderio di edificare un convento e una chiesa dei Cappuccini. Fu vicenda lunga e di non facile attuazione dato che proprio in quegli anni venivano soppressi numerosi monasteri a causa della penuria tanto di vocazioni quanto di mezzi economici. La bella ed emblematica storia del Convento di San Giovanni, o meglio di San Gallo, perché sul confine di quel territorio sorse, coinvolge direttamente il Ceresa e i fratelli Raspis, legati dall'infanzia alla sua famiglia per quei prestiti necessari al padre all'acquisto della casa "super flumen Brembi". Il soffermarsi su questa vicenda non è un andare fuori argomento, ma un entrarvi in maggior profondità, capire da quale appassionata e partecipe devozione nascono i ripetuti, ma non frettolosamente ripetitivi, quadri del Ceresa di Sant'Antonio da Padova, il frate delle miracolose prediche, il frate Dottore della Chiesa che, già agostiniano nel monastero di Coimbra, volle abbracciare il nascente ordine di San Francesco d'Assisi, il più celestiale di tutti i santi, dal quale ebbe direttamente l'incarico di insegnare teologia a Bologna. Storia del convento Il desiderio degli abitanti di San Giovanni Bianco di avere un convento di frati francescani che fosse parte integrante della piccola comunità e la determinazione nel realizzare questo desiderio in tempi tutto sommato brevi, sono altri indizi storici di una religiosità consapevole e buona. Anche prima di avere un suo convento in località Callagano, il paese accoglieva, anzi attendeva i frati Riformati di Romacolo che passavano di casa in casa portando preghiere, consigli, benedizioni e ricevendo la povera carità della gente, segno di gratitudine, di devozione, di affettuosa sollecitudine e solidarietà. Proprio per questi frati di passaggio, stanchi del lungo camminare carichi della carità da ricevere e da dare, il 22 settembre del 1621, Antonio Raspis di Cornalita "ob maximam dilectationem adversur Patres Minores... de Hendenna..." donò loro una solida casa con due corti, in Callagagno, riservando per sé e per il fratello due stanze, messe anche a disposizioni di altri frati "questuanti" di passaggio. Nel 1639, il fratello Giovan Maria Raspis "per il molto affetto et benevolentia verso li Padri Minori chiamati di San Francesco della Riforma del Monastero... del Romacolo... cede un oratorio seu chiesuola nuovamente fabbricata nella contrada di Callagagno", proprio di fronte alla casa donata vent'anni prima dal fratello. Era un altro passo, ma non era ancora un convento del paese verso il quale tuttavia confluivano eventi provvidenziali. Il primo fu il testamento di Giuseppe Boselli, residente a Venezia. Originario di San Giovanni, il Boselli, con il commercio dei guanti "all'insegna delle doi Riode", aveva a dismisura accresciuto le ricchezze che già possedeva a San Giovanni e in Valle Brembana. Fece dunque testamento, il Boselli, il 21 gennaio 1639 lasciando la metà di tutti i suoi «beni da Bergamo a S. Giovanni Bianco in Val Brembana... per fabricare con l'aiuto di Dio una Chiesa di PP. Capuccini in loco detto il Piazzo». Inoltre, per lo stesso scopo, diede disposizione di consegnare 200 ducati al dottor Pietro Benzoni, la cui famiglia al Piazzo, all'inizio del secolo, aveva fatto edificare a sue spese la chiesetta di San Francesco e di Santa Caterina. Ricevuto il lascito, da San Giovanni vennero subito indirizzate "suppliche" al Doge di Venezia onde ottenere i necessari permessi di edificare il convento. Ma temendo l'arenarsi burocratico della pratica, le autorità diedero procura al notaio Agostino Boselli, "coriero della Serenissima", di farsi portavoce presso la "Cancelleria dei S.Ill.mi Rettori". Per dar più forza alla procura, vollero firmare il loro assenso 73 capifamiglia di San Giovanni, fra i quali Carlo Ceresa (praticamente firmarono tutti, essendo gli abitanti ridotti a 300 per la peste). Simili petizioni vennero anche dalle parrocchie limitrofe cosicché l'iter burocratico fu spedito quasi quanto le trattative per permute e acquisto di terreni "sul piano di Callagagno" ritenuto dai frati più idoneo del Piazzo. I lavori iniziarono l'11 novembre 1640 con la solenne posa della prima pietra. Nel 1644 i lavori dovevano essere terminati anche se la chiesa fu solennemente consacrata solo il 12 settembre 1648 dal vescovo di Bergamo Luigi Grimani. I Cappuccini vi avevano preso stabile dimora già nel 1641 rimanendovi, venerati, sino alla soppressione napoleonica del 1798. Per un secolo e mezzo la loro presenza consolò gli afflitti, consigliò i dubbiosi, confortò i moribondi, soccorse i poveri ridistribuendo quanto la gratitudine della popolazione donava al convento con i lasciti testamentari. L'anima universale e particolare del luogo Lo svolgersi di questa particolare vicenda, i modi sia pure ufficiali e quindi convenzionali di scrivere gli atti ufficiali, le petizioni e i testamenti, ad uno sguardo attento, possono rivelare i caratteri, i sentimenti specifici di un paese, le sfumature che ne differenziano il vivere e l'espressione rispetto alle radici comuni con i paesi vicini e con il più vasto territorio della propria regione. In questo distinguersi dei caratteri comuni tra famiglia e famiglia, paese e paese, regione e regione, consiste la ricchezza infinita dell'umanità e il suo carattere interdipendente con il carattere del luogo e le sue condizioni economiche. Questa "anima universale e particolare del luogo" noi possiamo leggere nel meraviglioso libro dell'arte. Ogni dipinto, ogni scultura, ogni musica è pagina rivelatrice, è storia. Storia che va oltre gli eventi, sino ai sentimenti, spesso anticipandoli quando ancora sono in germoglio. Carlo Ceresa, direttamente coinvolto nella vita comunitaria di San Giovanni Bianco, diviene dunque testimone attendibile del suo tempo e del suo luogo, inteso, ripetiamo, non come limite, ma come radice salda, rinsaldata negli anni in più vasti orizzonti. Testimone di valori che, attraverso la sua arte, trascendono il limite del luogo e del tempo per divenire universali. E nell'universale possiamo tuttavia riconoscere continuamente l'anima della sua gente, il carattere forte nelle avversità e nelle abituali fatiche, il sentimento religioso corroborato dalla preghiera, cresciuto nella solidarietà, fondato in misura non sempre uguale sulla fiducia e sul timor di Dio; un sentimento vissuto con forte senso del peccato e del perdono, al quale non deve essere estranea la generosità dei lasciti testamentari per messe in perpetuo suffragio. Un carattere che nei secoli rimase pressoché immutato sino al benessere economico della rivoluzione industriale, post industriale e globale, che ha prodotto sradicamenti rapidi dei quali non possiamo ancora valutare appieno gli elementi positivi e negativi, né la portata dei nuovi e si spera arricchiti radicamenti che possano, come nei secoli scorsi, rendere confortante, nei momenti dolorosi, il trovarsi tra la propria gente, il sentirsi partecipe al senso di sicurezza di una piccola comunità. La Grabbia, quattro case di pietra Le nozze del Ceresa con la "sua dolcissima" Caterina (lo stesso nome della madre), condussero il pittore dalla casa paterna sul fiume, alla contrada della Grabbia sul monte. Quattro case di pietra fra i campi e la vigna ben soleggiata che gli Zignoni (taluni anche commercianti di vino a Venezia) amavano coltivare. Lo sguardo, allora come oggi, spaziava nel silenzio dalle cime dei monti, alla distesa della valle. Venne il Ceresa fagocitato dalla ricca famiglia della moglie, o non fu forse il matrimonio, occasione di nuova ispirazione, rinnovati slanci, nuovi orizzonti e nuove opportunità? In altre parole, l'arte del Ceresa venne in qualche modo limitata o incentivata nella sua libertà di espressione e di evoluzione con il matrimonio? Vi sono motivi per sostenere l'una e l'altra tesi, ma guardando le opere del Ceresa nell'ordine cronologico, certo là dove è sicuro, il bilancio di un eventuale perdere e di un sicuro aggiungere è ampiamente positivo. Il Ceresa non era un pittore maledetto la cui arte affondava nella sua "maledizione". Due pittori che stanno bene insieme, il Ceresa e il Baschenis» Insomma il Ceresa non era un Caravaggio, se mai un Baschenis. Due vite d'artista parallele sebbene l'uno con la vocazione della famiglia, l'altro del sacerdozio, entrambi dediti alla religione della pittura («I due pittori che stanno così bene insieme - come ha giustamente rilevato il Testori - sono il Ceresa e il Baschenis», Longhi, 1953). Due vite d'artista pacate, con esiti affini nonostante la diversità dei soggetti. Due vite d'artista appartate, del tutto escluse dal gran cantiere di Santa Maria Maggiore in Città alta, punto d'arrivo e d'orgoglio per artisti italiani e stranieri di fama consolidata o da consolidare. Per quanto escluso dal "cantiere" di San Maria Maggiore, il Ceresa dipingeva incessantemente numerose pale d'altare per le chiese delle Valli, della Pianura, della città (compreso il bel San Vincenzo, pag. 68, del Duomo con l'esatto profilo di Bergamo), e severi ritratti di "singolare penetranza", di ricchi e di nobili, soprattutto della città. Fu un continuo andirivieni dalla Grabbia, finché nel 1668, il Ceresa risulta residente a Bergamo nella casa acquistata due anni prima in Borgo Pignolo («posta nel Borgo di S.to Tomaso, vicinanze di S. Alessandro della Croce») e dove abiterà sino alla morte, avvenuta alla fine del mese di gennaio nell'anno del Signore 1679. Di poco conto la discordanza di qualche giorno fra la data riferita dal Tassi (10 febbraio) e dal registro dei morti (20 febbraio) con quella esatta del documento notarile ("adì 30 genaro 1679") di consegna del testamento «stante la morte del predetto Ceresa seguita questa notte prossima passata». Il testamento e le grandi ricchezze Nelle undici pagine del testamento, dettato non casualmente il giorno del venerdì santo del 1678 (8 aprile), dopo aver raccomandato l'anima sua all'altissimo, alla Vergine e ai santi «Francesco, Giuseppe et Antonio da Padova suoi particolarissimi Invocati», il Ceresa lascia prima di tutto che la "Signora Catterina Zignoni sua dilettissima consorte sia Donna, Madonna, Patrona et usufruttuaria...". Seguono le disposizioni per la sepoltura nella Chiesa di Sant'Alessandro della Croce, la prescrizione ai figli di fargli celebrare duecento messe dai Padri delle Grazie, i lasciti a "Rev.de Madri Cappuccine" e "Rev.di Padri Cappuccini", nonché ai poveri di San Giovanni Bianco ("un saccho di sale"), l'elenco di tutti i beni immobili e i capitali dati a prestito, il tutto per un valore di scudi 5.961, equivalenti a lire 41.727, da dividersi in parti uguali tra i cinque figli maschi superstiti: don Giovanni Battista, Giuseppe, Sebastiano, don Francesco (ancora chierico) e Antonio. A Giuseppe e Antonio, i due figli pittori, ovviamente lascia tele colori pennelli disegni e quadri "atteso che sono tutte robbe della loro professione di pittura...". L'ingente patrimonio non è di per sé indice degli alti guadagni del pittore e quindi dell'alta considerazione in cui era tenuto dai suoi contemporanei (sappiamo, per esempio, che l'Angelo della Chiesa di Paladina, pag. 16, venne pagato al Ceresa lire 56 nel 1674, mentre due tele perdute di Cornalita, San Carlo e San Liberale, lire 85 nel 1661), tuttavia è certamente un valido elemento di valutazione, tenuto ovviamente conto delle eredità della moglie Caterina a Grabbia e a Venezia, del carattere parsimonioso del Ceresa, memore delle ristrettezze economiche dell'infanzia («è huomo che non getta via neanche un soldo»), e della sua capacità di ben amministrare e investire i guadagni, parte in acquisto di immobili, parte in prestiti ad interesse remunerativo e con garanzie ipotecarie (al tempo era una consuetudine che suppliva alla mancanza di banche vere e proprie). Precisissimi sono gli innumerevoli "strumenti" rogati nel tempo dove si trovano minuziosamente elencati debitori, somme, garanzie e interessi richiesti, dai quali risulta un Ceresa oculato e avveduto, ma mai esoso, anzi sempre disposto a ragionevoli negoziati. Il Tassi lo definisce, infatti, oltre che piuttosto malinconico e di poche parole, di ottimi costumi, esattissimo di parola e tanto puntuale nel mantenerla, da non impegnarsi mai in nuovi dipinti prima di aver finito quelli in corso. Questo aspetto per così dire "contabile" del Ceresa non contrasta affatto con la sua sensibilità narrativa "premanzoniana" riscontrabile nella affettuosa umanità innervata spesso da un forte vigore plastico e cromatico. Né contrasta con la tenerezza affettuosa dei suoi angioletti o con i delicatissimi lineamenti della Vergine nella quale pare abbia, per un certo periodo, raffigurato la "diletta" Caterina dal sembiante gentile e onesto. Né contrasta con il suo animo di "Disciplino", confraternita alla quale apparteneva e che raffigurò in capolavori dai forti accenti spagnoli di Francisco Zurbaràn. Lo spirito del Convento Si può dire che lo "spirito del convento" permea l'animo del Ceresa e promana da tutti i suoi dipinti, persino dai ritratti, e non solo in quelle tele dove ama raffigurare fra i vari Sant'Antonio da Padova e San Francesco d'Assisi, i Santi più vicini a lui nel tempo. Fra questi: Gerolamo Emiliani morto a Somasca nel 1537 e raffigurato dal Ceresa ancora prima della sua canonizzazione nel 1671; San Francesco di Sales, il principe dei predicatori canonizzato nel 1665, che insieme a Santa Francesca Giovanna di Chantal aveva fondato nel 1610 l'Ordine della Visitazione; San Filippo Neri, morto nel 1595 e rapidamente canonizzato, nel 1622, mentre si diffondeva lo spirito degli oratoriani di una bontà vivificata dal fervore intellettuale e vissuta in lieta carità verso i poveri, i deboli e gli ammalati. Due pittori di origine bergamasca avevano legato il loro nome all'Oratorio romano di Santa Maria Vallicella: il Caravaggio che vi dipinse la sublime Deposizione nel sepolcro ora nella Pinacoteca Vaticana, e il Pomarancio chiamato a dipingere dodici Storie di San Filippo da sistemare nella camera dove "il beato Padre tanti anni era dimorato". Nel secentesco "spirito del convento" di San Giovanni Bianco, del quale il Ceresa si lasciò volentieri permeare, il bel dipinto di Nese San Felice da Cantalice riceve dalla Vergine il Bambino Gesù, del 1644 (pagg. 60-61), diviene brano autobiografico di vita familiare. L'umile contadino di Cantalice fattosi cappuccino a Roma nel 1545, è il Ceresa stesso, non per i lineamenti fisici (piuttosto legnosi perché desunti da un ritratto del frate, attribuito a Giuseppe Cesari), ma per quelli spirituali. Il donatore raffigurato in basso a destra è Giuseppe Raspa, ottantaduenne zio del Ceresa che, morendo, aveva voluto donare una pala del Beato Felice alla "Cappella della Chiesa dei nostri Padri Cappuccini". Ancora in vita aveva anticipato "lire cento cinquanta a d. Carlo Ceresa Pittore" disponendo fosse poi saldata "conformemente meriterà". La miracolosa visione della Vergine che depone Gesù Bambino fra le braccia del cappuccino, rinnova sulla tela il gesto di Caterina, sposa del pittore e forse modella di tante Madonne, come questa di Nese dal volto florido e il naso leggermente aquilino. Già quattro figli sono nati nella casa del Ceresa, l'ultimo, Ambrogio, battezzato nel dicembre del 1642. altri sette devono ancora nascere. Il giorno delle nozze d'argento, nell'aprile del 1660, Giovanni Antonio, il più piccolo, ha solo un anno. Pittore dal genio precocissimo, morirà poco più che ventenne, cinque mesi dopo il padre. La "dilettissima" Donna Caterina Zignoni Ceresa non sopravvisse a tanto dolore: il 14 luglio 1679 raggiunse in cielo il suo "dilettissimo" sposo e tutti i suoi angeli. |