Carlo Ceresa affreschista
Sorvolando il Tassi e il Conte Carrara, ai quali si è già accennato, la successiva stazione della storia patria dell'arte obbliga a fermarsi al 1869. Nei suoi Illustri bergamaschi, Pasino Locatelli mette in dubbio l'alunnato Crespi, così come lo racconta il Tassi, e immagina il Ceresa sui ponteggi della Certosa di Garegnano a «veder lavorare il focoso artista». Più che aver guardato, potrebbe aver collaborato col Crespi e imparato un po' di quella tecnica dell'affresco che dispiegò, fra l'altro, nella cupola di Sforzatica-Oleno, dove il San Luca-pittore potrebbe essere un autoritratto, e nel Santuario della Beata Vergine dei Campi di Stezzano, dove i suoi bellissimi Angeli adolescenti e Angeli putti hanno trovato, nella volta, il loro felice paradiso. Madonne con il volto della diletta moglie Caterina Fu ancora il Locatelli a rintracciare nel realismo del Ceresa delicatezze classiche («il freddo delle tinte cinerine... levato di pianta dal Reni», il «divino Guido») e a seguire il Tassi nell'ipotesi che effigiasse il volto della diletta moglie Caterina Zignoni nelle sue Madonne. Ovviamente non in tutte e non per tutto l'arco della vita, precisa Luisa Vertova, subentrando negli ultimi decenni volti di soavità presettecentesca. Sostò il Ceresa a Firenze nel 1911, alla mostra del «Ritratto italiano», ben commentato dalle schede di Ciro Caversazzi «un uomo che ha fatto grande onore alla cultura storico-artistica bergamasca». Dei sei ritratti presentati, solo quattro poi rimasero nel suo catalogo (Il frate, pag. 100, Laura Zignoni Boselli, il chirurgo Francesco Boselli. Il conte Secco Suardo di Moasca a tre anni. L'occasione fu comunque importante per una conoscenza del Ceresa oltre i limiti regionali e nazionali. Alla mostra fiorentina del Seicento e Settecento a Palazzo Pitti (1922), il Ceresa fu ben rappresentato dalla Dama della Brera, dal Conte Paolo Sigismondo Premoli, in collezione privata a Roma, e dalla Sacra famiglia con San Lorenzo e donatore a pagina 85, di singolare felicità stilistica. Dieci personaggi in cerca d'autore alla mostra «I pittori della realtà» di Milano altri nobili e borghesi, giovani e non più giovani, effigiati dal Ceresa, ebbero nel 1953 l'onore di un invito a Palazzo Reale alla memorabile mostra milanese dei «Pittori della realtà». I dieci personaggi ceresiani colà convenuti trovarono quale autore Giovanni Testori, più letterato che critico, e forse per questo a tutti più simpatico. E lui disse un gran bene di tutti, si complimentò per la loro «premanzoniana umiltà» e «premanzoniana prudenza» che li distingueva «frammezzo alla ritrattistica esornativa, o caricata di drammi, del tempo». Cortesia vuole che il gran cerimoniere li presenti uno per uno: Giovane gentiluomo con i guanti nella sinistra (pag. 11), due Gentiluomini con baffi, certo parenti, una Gentildama ventiduenne, un Gentiluomo con parruccone, un Gentiluomo [Cristoforo Vertova?] un po' arrogante che al Testori sembrò un «don Rodrigo che tante setaiole, al tornar dalle filande, deve avere, sulla sera, volenti o nolenti, condotte nei campi», (ma sui due piedi se ne guardò bene dal dirglielo); si tenne da lui ben distante una graziosissima Bambina, stanca di tenere la sua rosa in mano, accompagnata dalla Giovane dama di casa Sala, tanto ammirata alla mostra da accasarsi tre anni dopo nella Pinacoteca Brera; buoni ultimi, un Giovinetto con cappello in mano, giunto nelle sale di Palazzo Reale dal vicino Castello Sforzesco, e una Giovane vedova, giunta apposta da New York (coll. Suida Manning), proveniente da Vienna, per far vedere quanto era bravo il bergamasco che l'aveva dipinta. Un soggiorno veneziano in casa Baffo Quest'ultimo quadro, capolavoro della ritrattistica ceresiana assegnabile al 1650, per le affinità stilistiche con il Ritratto di vedova a pagina 106, venne identificato dagli estensori della mostra milanese in «una delle opere che, secondo il Tassi, il Ceresa mandò a Vienna» e che il Longhi(8) suppone eseguito a Venezia, in casa Baffo, dove, sempre secondo il Tassi, il Ceresa avrebbe soggiornato («Si trattenne qualche tempo in Venezia in casa Baffo, ove fece per que' nobili Signori e per altri ancora moltissime opere»). Ceresa e Baschenis Fu in occasione della mostra milanese, che il Longhi tracciò quella linea Ceresa-Baschenis vista come argine della pittura locale all'ondata esterna del barocco. La sua valutazione potrebbe sembrare un po' riduttiva (ma a ben leggere non lo è) nei confronti di questi due pittori bergamaschi che - scrive - sanno accompagnarci «quasi amichevolmente, attraverso i lunghi anni (o; direi, pomeriggi, ché pomeridiana è la luce dei loro quadri) del fosco, aduggiato, Seicento... I due pittori che stanno così bene assieme (come ha giustamente rilevato il Testori) sono il Ceresa e il Baschenis». Carlo Ceresa, che era stato a erudirsi a Milano alla robusta retorica di Daniele Crespi (e lo si avvertirebbe dalla forbita politezza dei suoi quadri sacri, se qui fosse stato luogo a presentarli), «suole poi incantarsi di fronte ai suoi modelli... e la sua cura nel concretarli quasi ossessivamente come "oggetti" fra luci e ombre a contrasto, è assai simile alla lunga pazienza con cui Evaristo Baschenis - un sacerdote che aveva evidentemente molto tempo a disposizione - colloca le sue "miscellanee" di oggetti al traguardo dell'immobilità, sotto la luce protratta dei pomeriggi estivi; e prima cosparge, poi ritoglie a ditate (per maggiore "inganno"), la polvere sui dorsi, e dai dorsi, dei famosi liuti cremonesi. Potrebbe quasi dirsi, a mo' di conclusione, che il Ceresa dipinga i suoi ritratti come "nature morte" a carica vitale, e il Baschenis le sue "miscellanee" come "ritratti di strumenti musicali"». E se l'uno viene raffrontato all'altro, val la pena di leggere cosa scrive qualche riga più il là il Longhi del Baschenis: «ai giorni buoni, ci dà capolavori come il silente dipinto della galleria di Bergamo, o come quello di Bruxelles, da parer quasi un frammento marginale di qualche ignota tragedia sacra caravaggesca (l'angolo di un Martirio di Santa Cecilia accanto agli strumenti amati); o come il Ragazzo con la cestina di dolciumi...». L'innovazione eretica del Merisi Dire come fa il Longhi che il Ceresa dipinge i suoi ritratti come «nature morte» a carica vitale non è sminuirne il valore, ma intuire in essi l'innovazione eretica del Merisi riferita dal più intelligente dei suoi amici: «e Caravaggio disse che tanta manifattura gli era fare un quadro buono di fiori come di figure». Se il Caravaggio avesse fatto in tempo a conoscere il Ceresa, forse l'avrebbe annoverato fra i pittori «valent'huomini», quelli cioè che sanno «depingere bene et imitar bene le cose naturali». Non basta il somigliante, «depinger bene» significa rendere il senso delle cose e il sentimento delle persone. Due ritratti aggiunti al Ceresa Fra i molti ritratti del Ceresa, si guardino per esempio i due ritratti (pagg. 108-109) del medico Giuseppe Valli Ghisoni e della di lui consorte Giacoma Adobati, recentemente aggiunti al catalogo Ceresa da Luisa Vertova. Due quadri di superlativa quanto spoglia intensità, di una bellezza tanto più alta quanto più scende nella penombra di antiche stanze dove la vecchiaia ha steso un velo d'ombra sugli occhi ottuagenari del medico, quasi a meritato riposo di lunghe veglie su libri di meditazione e di medicina, disposti in secondo piano a costruire la prospettiva della stanza. Mani bellissime da medico, o da pianista, di una naturalezza pittorica pari a quella del muro o del vestito, e ciò, nel senso caravaggesco, non è offesa. Il fulgido stacco del colletto bianco è tocco magistrale in leggero riverbero sul bianco dei capelli e della barba. Il volto assorto è ormai consapevole che il tempo, prossimo ormai a chiudere il suo corso, lo priverà di ogni esteriore vanità come nel "memento mori" ben in luce sul tavolo. Il ritratto della moglie Giacoma, apparentemente meno austero - per l'ampliarsi del bianco abbagliante del colletto e del rosso purpureo della tenda - trasuda di una rigida austerità borromaica che il crocifisso e il libro di preghiere confermano e accentuano. Ma è nell'analisi attenta del volto che la severità, di costume e di carattere, si declina in note amare e quasi arcigne, come se le asprezze della vita avessero inasprito e indurito l'animo. Qui il Ceresa raggiunge l'acme del realismo. La luce batte sulla fronte ampiamente stempiata. Il volto scavato, le rughe profonde, le cavità orbitali, l'esile collo, dicono una magrezza scheletrica che l'astratta volumetria dell'abito nero nasconde. Nera persino la collanina, quasi corona del rosario pronta per l'ultimo intrecciarsi freddo delle mani nobilissime, ancora sensibili e pulsanti di vita nelle vene evidenti. Nei due ritratti accostati, si approfondisce e accresce la «naturalezza», o realtà che dir si voglia. Par di veder la lunga vita dell'uno e dell'altra e la lunga vita insieme, che la donna - più risoluta - avrà sempre ben organizzato, in quanto alla casa, le "famule" e i figli, scegliendone anche i nomi, tanto belli quanto significativi di una non superficiale devozione: Francesco (doctor), Michele (reverendus), Girolamo, Maria, Elisabetta. E in ciò ella crebbe in autonomia e forse in autorità, ma a fin di bene, per non distogliere il marito dalla sua importante professione-missione di medico. Avesse visto il Boschini(9) al suo tempo questi due capolavori, avrebbe saputo fermare nel tempo la loro realtà come seppe fare per il Sarto del Moroni con un verso famoso («L'ha in man la forfe, e vu 'l vedé a tagiar»). Nel saggio Additions to Ceresa, pubblicato sul londinese "The Burlington Magazine" del settembre 1995, Luisa Vertova(10) ritiene che il Ceresa abbia ritratto Giuseppe Ghisoni in occasione del suo ottantesimo compleanno, nel 1655. «Lo si deduce dalle affinità stilistiche che avvicinano la sua effigie a quella di un altro serinese, Jacopo Tiraboschi Faldini (pag. 15 e 107) che il Ceresa ritrasse nel 1654, accomodandolo sulla medesima poltrona ma girandolo in posizione opposta». I difficili restauri I non molti quadri del Ceresa datati, sono punto di riferimento per allineare la lunga galleria di quasi trecentocinquanta opere di sicura autografia delle quali (eccetto le perdute o disperse) si dà elenco alla fine del libro. Alcuni dipinti, purtroppo, non sono in buone condizioni, presentano cadute e sollevamento di colore creando grandi difficoltà di restauro anche per la materia povera che non consente puliture se non caute e delicatissime, cosa del resto auspicabile in ogni restauro. Puliture troppo drastiche, rimuovendo le bellissime ultime velature originali, lasciano talvolta trasparire la parte di preparazione rossa sugli incarnati. I figli pittori Giuseppe e Antonio, una scuola ceresiana di breve durata. Alle opere di sicura autografia sono da aggiungere altre cento opere dubbie, o non rintracciabili, o eseguite dai due figli pittori: Giuseppe, il meno dotato, e Antonio, l'undicesimo e ultimo figlio, artista precocissimo, che presto seppe distinguersi dal padre per i colori più freddi, il più incisivo profilare, la più aggraziata e levigata pittura quasi anticipatrice dell'arte settecentesca. Si guardi, per esempio, l'Angelo Custode nella Chiesa di Paladina-Sombreno pagato a Carlo Ceresa nel 1674. Come lievitano i panneggi in fluenti volute, trionfo del bianco ceresiano, «il suo amato bianco», accostato a toni morbidi e caldi. Lievita con i panneggi la figura dell'Angelo sull'orlo dell'abisso, tenendo per mano il bambino che cammina sul sentiero a strapiombo. Diverso l'Angelo Custode del Santuario di Sombreno «inaspettatamente classico-bolognese» (R. Mangili 1981), inserito "obtorto collo" nel catalogo Ceresa, ma «assegnabile ad Antonio Ceresa, figlio del pittore», come si legge nella esemplare e monumentale monografia del Ceresa (1984) edificata da Luisa Vertova per la collana "I pittori bergamaschi". Morì a soli vent'anni Antonio, il 13 giugno 1679, neanche cinque mesi dopo il padre. Resta il rammarico di quel che sarebbe potuto diventare egli stesso e di come avrebbe potuto dar vita ad una scuola ceresiana, insieme al fratello maggiore Giuseppe, che gli sopravvisse solo sei anni. Nel suo saggio "Dal Moroni al Ceruti" per la mostra milanese dei "Pittori della Realtà" Roberto Longhi si chiede se non sia pregio di una cultura regionale cercar di portar lontano le proprie idee, e i propri valori quando sembrino trascendere - e questo è privilegio dell'arte riuscita - la regione stessa. In questo prospettiva vuol porsi la mostra che San Giovanni Bianco dedicata all'arte sacra di Carlo Ceresa, con l'intenzione di sottolineare l'importanza e l'influenza delle radici nello svolgersi di un'arte "certo riuscita" poi arricchitasi di vaste esperienze, sempre comunque ancorate alla irrinunciabile scelta del "reale" dovuta alla educazione lombarda di bergamasco-brembano. E non si legga questo come un limite, ma come orgoglio di un carattere, quello stesso che consentì al Caravaggio di avviarsi a Roma "col manifesto già in tasca della rivoluzione realista" (Longhi) discesa dal Moroni. All'inizio del Seicento... All'inizio del Seicento giunse a San Giovanni Bianco dal nativo paese di Cortenova, in Valsassina, Ambrogio Ceresa, figlio di Francesco e Brigida. Forse la "pezza" di terra "boscata e silvata" della sua famiglia non bastava al viver suo e dei fratelli, forse il temperamento lo spingeva a tentare la fortuna emigrando verso un paese allora il più popolato dell'intera Valle Brembana, dove le "fucine" degli Zignoni davano lavoro a diverse persone, dove i mulini «da grano» avevano fatto chiamare «Vallis Molendinorum» il corso d'acqua che segna il confine fra San Giovanni Bianco e Camerata, dove la lavorazione della lana, sia pure ancora a livello di artigianato familiare, stava avviando il paese a diventare, con San Pellegrino e Zogno, il terzo vertice del triangolo industriale; dove Venezia, la Dominante, trovava le più elevate risorse in soldati delle «ordinanze» e in contributi versati alla Camera Fiscale. Quando Ambrogio Ceresa, padre del nostro pittore, arrivò a San Giovanni Bianco, aveva trentun anni. Era il 1602. Forse aveva imboccato la strada Priula appena "tagliata nella roccia viva" per facilitare lo scambio di merci e di persone, ma quando "l'immigrato" giunse non ebbe certo vita facile e facili guadagni come aveva sognato. Per quanto il paese fosse quel che appariva all'esterno, la povertà della popolazione era quella degli altri paesi. La terra, tutta faticosamente coltivata, soprattutto a miglio (il granoturco arriverà nel 1630), dava scarsi raccolti. La vite dava vino povero, il castagneto il suo povero cibo, così pure gli alberi di noci, i quali tuttavia davano anche legno buono e olio da usare in cucina o da ardere nelle lucerne. Nella scala della povertà e della ricchezza, dove tutto è relativo, ogni gradino è sempre stato punto d'arrivo per qualcuno e punto di partenza per altri. E così, se taluni giungevano a San Giovanni Bianco sperando di trovar fortuna, altri, per lo stesso motivo, se ne partivano, cercando lavoro, soprattutto a Venezia nelle compagnie dei Bastagi e dei Caravana. Ambrogio Ceresa, giunto a San Giovanni Bianco, si mise a fare il calzolaio, mestiere che ricorda favole felici, non tuttavia per grandi ricchezze, comunque bastanti per formarsi una famiglia. Cosa che egli fece nel 1609, e precisamente il 23 febbraio, data in cui ebbe la dote della sua sposa, Caterina Maurizio, di una famiglia residente alla Roncaglia e originaria di Oltre il Colle. La scoperta di questo documento ha messo in dubbio l'esattezza del Tassi nel riferire la data di nascita del Ceresa, il 20 gennaio 1609, all'incirca un mese prima delle nozze, così come del Tassi si mette in dubbio l'alunnato del giovane Carlo nella bottega milanese di Daniele Crespi. In merito ai dubbi sulla data di nascita (su quelli del presunto alunnato Crespi si è già scritto nelle pagine precedenti) si potrebbero fare almeno due considerazioni. Le nozze "riparatrici" non erano caso raro nemmeno per quei secoli austeri e severi. Dal testamento di Vistallo Zignoni(1), per esempio, si viene a sapere che la figlia Maddalena era stata diseredata perché fuggita di casa, fra "scandalo et iniuria", per una unione "clandestina" alla quale seguirono poi le nozze e relativo perdono paterno, con tanto di consegna di 125 imperiali di dote allo sposo Alberto Cagnis di Briolo. Si consideri inoltre che Ambrogio Ceresa, al tempo delle nozze, aveva ormai 38 anni, e si consideri infine che la sorella di Carlo, Brigida, stando all'atto di morte, risulterebbe nata addirittura nel 1608. Non è che si possa far molto affidamento su questi atti, tuttavia, supporre tanti errori potrebbe essere un altro errore. Non si tratta di stabilire se il Ceresa fu o non fu, figlio illegittimo poi legittimato, per quel "punto d'onore" all'epoca invocato per dei nonnulla, ma se nacque all'inizio del 1609, come scrive il Tassi, o alla fine, come la data delle nozze dei genitori potrebbe far supporre. Un anno non è poco, quando si voglia dipanare l'incertezza dell'alunnato presso Daniele Crespi, il quale morì di peste nel 1630. All'epoca il Ceresa aveva dunque 20 o 21 anni, un'età non proprio giovane in tempi nei quali i pittori venivano messi a bottega a 13-14 anni. Il Caravaggio, per esempio, aveva tredici anni quando entrò nella bottega milanese del bergamasco Peterzano (nome della stirpe imparentata con gli Zignoni di San Giovanni Bianco per le nozze di Vistallo con "Domeneghina de Peterzanis"). Fra la Chiesa e il Brembo Date, avvenimenti e piccole vicende familiari, frutto del lavoro proficuo di cercatori locali (in questo caso Tarcisio Salvetti, che poi raccolse i suoi studi nel libro "San Giovanni Bianco e le sue contrade") sono importantissimi non tanto per comprendere la grandezza di un artista, ché quella si deduce dalle sue opere, ma per comprendere la realtà specifica della sua terra nel contesto della più vasta storia del tempo.Seguiamo dunque le ricerche del Salvetti per sapere dove visse l'infanzia il Ceresa e le condizioni economiche della famiglia, non certo agiate se la casa acquistata da Ambrogio nel 1617 fu più volte gravata di ipoteca sino al riscatto definitivo nel 1632, quando una certa agiatezza poteva venire dalle pale d'altare che l'ormai ventenne figlio Carlo andava eseguendo per le chiese dei dintorni. La peste del 1630 s'era presa così tante vite che i sopravvissuti si consideravano tali per miracolo, moltiplicando la devozione per le sofferenze di Gesù crocifisso e deposto, per la Vergine Maria, Mater Misericordiae, e per i Santi protettori, in primis San Rocco e San Nicola da Tolentino, santo taumaturgico agostiniano, venerato dal Ceresa(2). Proprio nel 1630 il giovane Ceresa firma, e ben in grande, le pale d'altare della Pianca (San Rocco, San Sebastiano, San Bartolomeo, pag. 115) e di San'Antonio Abbandonato (Crocifisso con i Santi Francesco, Rocco, Sebastiano e Nicola da Tolentino con il sole raggiante sulla tonaca nera). È poeticamente bello e non privo di significato che la casa del Ceresa si trovasse dietro la Chiesa Parrocchiale e "super flumen Brembi", quindi nel cuore del paese, punto di confluenza dello spirito religioso con lo spirito del fiume dove, per chi lo sa vedere, sempre scorre con l'acqua un sentimento religioso della natura come fonte di bellezza e di vita. Un sentimento che il nostro regista Ermanno Olmi meravigliosamente seppe narrare nella incomparabile poesia per immagini "Lungo il fiume". |