La mostra di San Giovanni Bianco, sintesi preziosa del Ceresa Sacro e tanto più significativa per il suo potersi estendere nel circostante itinerario permanente ceresiano, è occasione per un ampliarsi del catalogo a monografia sulla base degli importanti studi del Novecento (Longhi, Testori, Gregori, Pagnoni, Valsecchi, Mangili, Rossi, Ruggeri, Vertova, Frangi), ai quali si rimanda per quanto attiene problemi critici già approfonditi, circa la formazione, gli influssi, la cronologia e l'autografia delle opere del Ceresa. Un'arte «sacrosantamente
regionale». La sua luce accostante della realtà induce ad uno studio dell'arte regionale, «anzi sacrosantamente regionale», da contrapporre, come auspica il Testori nel saggio "Moroni in Val Seriana", a una «sorta d'incombente, "internazionale" colonizzazione della cultura e insieme del cibo, degli abiti, della carne e della vita». Chissà quanto bene e volentieri il Testori avrebbe scritto un saggio anche per questa mostra sul Ceresa, pittore "sangiovannese" e "valbrembanese", che un secolo dopo il Moroni, "albinese" e "valserianese", ne continuò, in alto e poetico modo, la tradizione della realtà nelle tele devozionali e nei ritratti. Non vi è scissione fra l'uno e l'altro genere, né si può ritenere in sott'ordine il Ceresa sacro, rispetto al Ceresa ritrattista.
Santi "bergamaschi" e Angeli adolescenti Il legame fra i ritratti e le tele sacre trova il suo anello di congiunzione non tanto nell'inserimento dei ritratti dei donatori nelle tele sacre, quanto nel senso sospeso di sacro che sempre aleggia nei ritratti, e nella accostante umanità dei suoi Santi, non semplici modelli anche quando ripetuti nella fisionomia, ma sempre veri, Santi che sono ritratti di parenti e conoscenti bergamaschi, Angeli che «hanno il volto sensibile e serio di adolescenti consapevoli della loro alta funzione. La loro presenza santifica ogni evento. Perciò invitano, delicati e gravi, alla meditazione e alla preghiera». Non è forzatura usare quale premessa al "Ceresa luce della realtà", le parole del Testori, laddove nel citato saggio sul Moroni(2) prima si chiede: «In che consista e come poeticamente si realizzi la "devozione" moroniana; se essa abbia forza di diventare "categoria" poetica come fu prassi della sua gente», poi auspica «la pulizia morale di sgombrare il campo da un equivoco tanto caro a noi moderni; quello che vede nella "devozione" una forma diminuita o deviata dell'atto religioso e, insomma, della fede». La risposta che egli si dà per il Moroni vale anche per il Ceresa: «le "immagini" della fede sembrano conservare o, addirittura, ricuperare l'intatta semplicità del loro momento primigenio». Il pittore tende così ad «esemplare la vita di ogni giorno, la vita usuale e comune, sui tratti della vita di Cristo, della Vergine e dei santi; o sugli eventi canonici e ricorrenti della liturgia; ed esemplarla in una sorta di nuova e antichissima obbedienza». Il risolversi delle scene sacre, in vissuto quotidiano «pacato e mormorante, ma non per questo meno forte, poetico e convinto, non sarebbe stato possibile al Moroni», e nemmeno al Ceresa, «se tale atteggiamento non avesse riguardato, in ogni senso, la terra in cui ebbe a vivere; e se quella terra non avesse fatto, appunto, della "devozione" il modulo della sua stessa religione e della sua stessa pietà; dove nulla si trova diminuito...». Il testimone passa da Cavagna, Salmeggia, Zucco al Ceresa E per la terra di San Giovanni Bianco in cui ebbe a vivere, il Ceresa dipinse le sue prime pale d'altare nel tempo afflittissimo fra carestia e peste (1630) che moltiplicava la devozione partecipe alla sofferenza del Crocifisso e le suppliche ai santi protettori Rocco e Sebastiano, ai santi della carità e dei miracoli Bernardino e Antonio da Padova. Si veda cosa racconta di sé il Ceresa nella Pietà con i Santi Pietro, Rocco, Antonio da Padova e Sebastiano, di Fuipiano, datata 1628, quasi un passaggio del testimone della pittura bergamasca dal Cavagna, dal Salmeggia, dallo Zucco, morti tra il 1626 e il 1627. Si immagini il quadro (pag. 40) senza le fuorviati aggiunte ai lati che stravolgono l'impostazione originale a tutto campo, sigla costante del Ceresa, il quale fa sempre debordare le figure come per avvicinarle a chi vi si prostra davanti in preghiera. Nei due committenti il pittore si rivela già dall'esordio quel sorprendente ritrattista ammirato in dieci tele alla gran mostra milanese dei «Pittori della realtà», patrocinata da Roberto Longhi, nel 1953. Il Testori in quell'occasione ravvisò nel Ceresa «una premanzoniana umiltà, una premanzoniana prudenza» che «lo distingue e isola frammezzo alla ritrattistica esornativa, o caricata di drammi, del tempo». Daniel Crespo Milanese, qual fu il maestro di mio padre» Nell'impostare le singole figure, il Ceresa rivela, invece, un desiderio di imparare, un avido osservare l'arte bergamasca e le stampe di capolavori cinquecenteschi, e non l'alunnato presso Daniele Crespi dato per certo dal Tassi sulla scorta di una lettera del 30 novembre 1666. L'aveva indirizzata al padre Donato Calvi per le sue «Effemeridi», il figlio stesso del Ceresa, Giovanni Battista, allora parroco di Bordogna. In questa viene citato l'oratorio «nella Roncallia fuori fatto fabricare da Pompeo Zignoni» con «una belissima ancona in honor di S. Carlo mano di Daniel Crespo Milanese, qual fu il maestro di mio Padre», un quadro che il curato Silvestro Grattarolo disse pagato cinquecento scudi. La cosa è verosimile perché Pompeo Zignoni, padrone di case, terre e fucine, aveva cinque figli a Milano, i quali, com'era allora abitudine, avrebbero potuto acquistare per la loro chiesetta una delle tante repliche del famoso Digiuno di San Carlo, conservato in Santa Maria della Passione a Milano. Dall'esame delle prime tele del Ceresa, Luisa Vertova (1984) esclude l'alunnato presso Daniele Crespi (1598-1630), morto giovanissimo di peste. Con serrati e ineccepibili ragionamenti ritiene inverosimile che un artista così dotato come il Ceresa, abbia così poco imparato dal presunto maestro, tanto da sembrare un autodidatta impegnato a conquistare una sua padronanza di mezzi espressivi. Anche il Ruggeri(5) rileva che la sua formazione, «ad un esame spassionato delle opere iniziali, presenta aspetti più ampi che non siano quelli della sola relazione con Daniele, che anzi ne viene attutita, per non dire del tutto cancellata. Ben poco, anzi nulla di crespiano emerge infatti dalla Deposizione e Santi di Fuipiano del 1628». Il fatto che vi sia «ben poco, anzi nulla di crespiano» nelle prime tele, potrebbe tuttavia dipendere dalla preoccupazione di trovarsi per la prima volta di fronte al problema di impostare una scena con più figure per un quadro destinato ad una chiesa e per giunta del suo paese, dove evidentemente ci teneva a far bella figura. Da qui l'ansia di trovare modelli più collaudati di quelli del Crespi ai quali ancorarsi. Daniele, tutto sommato, per quanto in auge, aveva solo dieci anni più di lui. È solo una ipotesi, avvalorata dal carattere prudente del Ceresa non disposto a correre soverchi rischi, tuttavia consente di riaprire uno spiraglio alla possibilità di un alunnato milanese, magari brevissimo e magari dopo un tirocinio presso botteghe bergamasche. E siccome nelle tele successive, soprattutto nei ritratti, nessuno esclude riferimenti al Crespi, perché non pensare ad un ricupero di precedenti lezioni anche attraverso una rinnovata osservazione delle opere. Una adesione più sincera alla realtà naturale, un più sereno sentimento religioso, una visione artistica più severa e più intensa rispetto ai pittori locali contemporanei, la spoglia austerità degli sfondi, non solo sono caratteri comuni al Crespi - «grandissimo» - e al Ceresa, ma ricollegano entrambi alla contemporanea pittura spagnola di Zurbaràn e Murillo. Per farla breve, si guardi il felicissimo Ritratto di Manfredo Settala della Pinacoteca Ambrosiana di Milano, oppure il Ritratto del chirurgo Enea Fioravanti, delle Civiche Raccolte d'Arte di Milano. In essi il Morandotti(6) ammira il talento del Crespi nell'indagare la figura umana, con morbidi passaggi di luce che restituiscono il volto in ogni suo dettaglio e in ogni vibrante inquietudine. La stesso potrebbe dirsi di alcuni ritratti del Ceresa lodati per i passaggi setosi e le modulazioni vibranti, per esempio lo splendido Giovane gentiluomo con i guanti nella sinistra, la cui descrizione (della Vertova) andrebbe a pennello anche riferita al Crespi: «La luce radente che proviene da sinistra fa risaltare la figura sull'anonimo fondale grigio. La rinuncia a una ambientazione e la semplicità dell'abito - di un nero uniforme, alleggerito dal candido lino trasparente dei polsini e del colletto là dove l'abito tocca la carne - conferiscono alla figura una monumentalità classica». Per questo Giovane del Ceresa, il Ruggeri propone una datazione al 1640-45, in base alla foggia del vestito. Ma il vestito è uguale nel Ritratto Settala che il Crespi, ovviamente, non può aver dipinto dopo il Trenta. I severi richiami del Borromeo Il ruolo centrale che il Crespi ebbe a Milano all'inizio del Seicento per lo sviluppo della produzione ritrattistica, quasi tutta di taglio ravvicinato e posizione frontale, a Bergamo - dal 1630 fino al 1670 - lo ebbe il Ceresa, tramandandoci l'effigie di nobili, professionisti, gentildonne, notabili e borghesi desiderosi di celebrare o confermare in pittura il proprio ruolo nella società. Il già citato San Carlo "digiunatore" del Crespi è ulteriore prova della sua abilità ritrattistica che si attiene ai severi dettami del Borromeo raccolti nel De pictura sacra («Mentre poi facciamo menzione dei ritratti, e diciamo che è lodevol cosa il ritrargli al naturale quanto fia possibile, non conviene tacere che sommo biasimo meritano quei pittori e scultori che prendono alcune persone di poca buona fama a ritrarre, invece dei santi e delle sante, e così le sanno ben dipingere che sono riconosciuti da ogn'uno»). La pacata nobiltà dei capolavori sivigliani di Zurbaràan A questi dettami certo si attenne anche il Ceresa seguendo il Crespi sulla via di un naturalismo inedito nel primo Seicento lombardo. Non è un caso che il Testori, definisca l'opera del Crespi «ciò che di più simile allo Zurbaràn si sia prodotto nel terzo decennio in tutta Europa». Similitudine che gli studiosi concordemente riscontrano anche in molti ritratti del Ceresa e nella pacata nobiltà dello splendido Crocifisso di Mapello (pag. 55), del 1641, paragonato dalla Vertova «ai coevi capolavori sivigliani di Francisco Zurbaràn». Ritratti scambiati per «Guercino stesso» A costo di tediare il lettore non si può sorvolare sulle aperture del Crespi verso il classicismo bolognese e la pittura toscana riscontrate da Maria Cristina Terzaghi (1999) già nelle opere intorno al 1622. Aperture riscontrabili anche in rari dipinti del Ceresa, nei quali si trovano ascendenze o citazioni di Guido Reni, il pittore del sentimento morale, e del Guercino, il quale fu lieto di "citare" il Caravaggio nelle sue tele dopo il soggiorno romano. Il conte Giacomo Carrara arriva a dire che alcuni ritratti del Ceresa possono essere scambiati «per di Guercino stesso, tanto gli si assomigliano». E nel 1639 - ricorda la Vertova - la grande Annunciazione del Guercino era giunta da Cento per la chiesa della Ca' Granda di Milano, tempio dei ritratti dei benefattori, più volte visitato dai ritrattisti. Un Angelo del Ceresa dato al "florentinus" Gentileschi In quanto alle aperture toscane, basti ricordare l'Angelo di Torino (pag. 65) che il Longhi affibbiò in un primo tempo a Orazio Gentileschi, il più raffinato ed elegante dei caravaggeschi, mai così «florentinus» come in quel dipinto del Ceresa. L'errore attributivo contiene più verità di quanto si possa pensare. Tornando al Crespi, è verosimile una sua conoscenza del Caravaggio. Al di là della Canestra, che già faceva bella mostra di sé all'Ambrosiana, deve aver almeno visto la Cena in Emmaus di Londra, dalla quale non può certamente prescindere la bellissima natura morta sul tavolo del Digiuno di San Carlo. La luce del vero di Caravaggio Ed è qui che voleva condurre tutto il lungo discorso che si spera non troppo campato in aria. È al nostro grande, sublime, inarrivabile, amatissimo Caravaggio. Per secoli si è ripetuto che il caravaggismo non sfiorò nessuno degli artisti della sua terra bergamasca. Forse non il caravaggismo superficialmente inteso come improvviso e improvvisato sbattimento di luci e di ombre, ma quella sua nuova luce del vero in qualche tela del Ceresa si può vedere. Certo fa parte della nostra tradizione della realtà, ma si guardino le opere in mostra e si dica se alcuni dettagli non respirano un soffio di Caravaggio: la mano in scorcio della Maddalena nella Crocifissione di Mapello, quasi un'idea dalla già citata Cena londinese; la naturale verità espressiva della stupenda Santa Elisabetta di Dossena; l'Angelo dell'Annunciazione di Valleve con la tunica in panneggiare candido e lucente sull'agile caviglia; il profilo quasi perduto della Sant'Anna di Leffe, della servente di Oneta, o quello di Santa Elisabetta nella Sacra Famiglia di Bergamo, così vero che par di ravvisarvi la contadina del Caravaggio inginocchiata davanti alla Madonna di Loreto. Il filo riannodato Ceresa-Crespi E siccome, a prescindere da un rapporto di alunnato vero e proprio, preme riannodare i legami tra il Ceresa e la modernità del «grandissimo» Daniele Crespi, («che risponde in molti suoi ritratti all'arrivo delle opere del Rubens nel Nord Italia»), si colgano fra le tele in mostra alcuni spunti di convergenza. Nel Battesimo di Terno d'Isola, ritenuto dei primi anni Quaranta, il Ceresa declina in più rarefatta eleganza l'impostazione di un Battesimo del Crespi a Brera. Le mani quando sono lunghissime e vibranti nelle dettagliate articolazioni delle dita, come quelle dei Santi nella tela di San Giovanni Bianco con i due splendidi donatori, ricordano il Crespi del Sant'Eligio di Isola Bella. Il fitto plissé del San Zaccaria di Leffe, e del San Carlo di San Giovanni Bianco, è sigla ripetuta del Crespi (nel già citato Digiuno, per esempio, e nel vasto ciclo di affreschi della Certosa di Garegnano), ma anche del Caravaggio (la camiciola della Zingara, al Louvre, e del David della Galleria Borghese) e di Camillo Procaccini, nella cui bottega subentrò il Crespi. Si obietterà che il plissé è plissé e che il bianco è bianco, ma la scelta può essere indicativa così pure il modo di declinarla. Documentato che il Crespi affittò per cinque anni la bottega Procaccini dalla vedova Anna, può avere un suo significato anche un semplice calzerotto, quello bianchissimo di San Giuseppe nel Riposo di Martinengo, ripreso tale e quale da Camillo Procaccini (la Visitazione in Duomo a Milano, dove le due sante cugine si danno la mano come nel Ceresa di San Gallo. «Carlo Ceresa nei ritratti molto lodato» Per espiar il tedio inflitto con tanto lungo prologo, si passerà in volo rapido sulla "fortuna critica" del Ceresa. Nelle sue «Effemeridi», alla data "Dicembre 1677", il padre agostiniano Donato Calvi, per confortare il lettore della morte di Evaristo Baschenis, scrisse che altri pittori «nobil fregio alla patria apprestano: Carlo Ceresa nei ritratti molto lodato...». L'iniziale maggior considerazione dei ritratti rispetto alle tele sacre, viene un secolo dopo quasi ribaltata, o quanto meno riequilibrata, da Andrea Pasta (1775), a commento del magnifico San Vincenzo sull'altare dell'omonima cappella in Duomo a Bergamo: «ne' Ritrati celebrato dal Calvi, ma anche ne' Quadri istoriati, e spezialmente muovevoli... è riuscito Pittore pastoso, dilicato et espressivo», ammirato negli angioletti «graziosi e morbidi», «tondeggianti e ben disegnati e coloriti». «Ricercato e studioso pittore, di colorito ameno, di belle idee di volti, formatosi a quel che sembra sugli esemplari del buon secolo», lo dice il Lanzi (1795) commentando le Storie di Sant'Alessandro in Santa Grata, «opere lontane dal manierismo», di «sapienza narrativa "manzoniana"», aggiunge la Gregori,(7) dove il chierico di schiena e le candele potrebbero essere idee del Crespi affreschista nella Certosa di Garegnano. |