Al Pizzo
dei Tre Signori lungo la Val d'Inferno
Un'escursione impegnativa, ma affascinante per la ricchezza di elementi naturalistici di cui è costellato il percorso è quello che da Ornica porta ai 2554 metri di quota del Pizzo dei Tre Signori, seguendo la Val d'Inferno. L'itinerario segue inizialmente la bella mulattiera contraddistinta dal segnavia n. 106 del C.A.I. e si snoda tra fitti boschi e ripidi prati ancora ben curati, costeggiando un minuscolo ruscello. Vecchie baite e caselli per il deposito del latte e dei formaggi si susseguono lungo la mulattiera a testimonianza della secolare presenza del'uomo e dell'attività da sempre praticata. Il percorso, dapprima abbastanza comodo, si fa via via più impegnativo e di tanto in tanto presenta tratti di ripida ascesa, finchè, dopo un'ora e mezza di cammino porta al piede dell'alpeggio Val d'Inferno, uno dei più estesi dell'alta Valle Brembana con i suoi 280 ettari di superficie totale, di cui 150 adatti al pascolo e il resto cespugliati, incolti o improduttivi. L'alpeggio si estende dai 1400 agli oltre 2000 metri di quota e ha un potenziale di 85 paghe; è di proprietà del comune di Ornica che lo concede in affitto alla società degli allevatori del paese, tuttavia da qualche anno viene caricato da estranei.
L'alpeggio dispone di abbondanza di acqua per i numerosi ruscelli; per l'estensione e il notevole dislivello è suddiviso in una decina di stazioni dotate di baite, casere, stalle, penzane, diversi bàrech e calècc. Le baite più caratteristiche si trovano alla quinta stazione (baita Gaos), alla sesta (baita Spondone), alla settima (baita Ciarelli) e all'ottava (baita Predoni, costituita da un unico locale ricavato sotto il tetto di un'enorme pietra e delimitato da muri in pietra a secco). Nella parte bassa dell'alpeggio è situata la casera, locale adibito alla produzione e alla conservazione del formaggio; l'edificio attuale venne costruito nel 1864 (ne fa fede la data posta sopra l'ingresso) sullo stesso luogo di quello distrutto da un incendio l'anno precedente. Un'altra casera più antica sorgeva più a monte, presso la baita Gaos, ma fu travolta da una slavina nel corso del Settecento. Il tratto che va dalla casera all'estremità settentrionale dell'alpeggio richiede un'ora di cammino. Dopo la baita Corna dei vitelli, che costituisce l'ultima stazione, la mulattiera ormai ridotta a poco più di una pista, incontra, circa a quota 2000, il sentiero delle Orobie occidentali, contrassegnato con il numero 101.
La val d' "Inferno" e del "Ciusur"
Come già detto, un tempo la Val d'Inferno non aveva questo nome ma si chiamava Val Fornasicchio. Osservando ed analizzando una mappa del 1.800, scopriamo che il territorio di Ornica è una fucina unica e possiede numerose chiodarole con maglio (si contano almeno 1 maglio da ferro, 7 fucine da ferro, 8 mulini da grano, 1 pila da orzo), alimentate dalle Valli d'Inferno e Ciusur, che significa "chiuso" a differenza della parte superiore chiamata "ciara". Nei secoli passati, tra la bocchetta del Monte Trona e il lago Nero esistevano diverse miniere di ferro; parte del minerale estratto veniva trasportato a Ornica, a dorso di mulo, per alimentare il forno di fusione. La presenza considerevole di forni e fucine con l' utilizzo del carbone prodotto sul posto per la lavorazione del ferro, poteva aver alimentato nella fantasia popolare l'accostamento all'Inferno, luogo del fuoco per eccellenza.
La baita del Diavolo
In Val d'Inferno non poteva mancare la … baita del Diavolo. Questa leggenda si perde come al solito nella notte dei tempi, quando alcuni pastorelli, mentre portavano al pascolo il loro gregge in Val d'Inferno, arrivarono nei pressi di una baita diroccata. Incuriositi dal fumo che usciva dal camino, i ragazzi si avvicinarono alla baita e gettarono uno sguardo all'interno, attraverso una piccola finestra munita di una robusta inferriata. Quello che videro li riempì di spavento: un omino magro, dalla lunga barba bianca e completamente calvo stava accanto al camino in cui ardeva un fuoco vivo e scoppiettante. Appeso alla sosta (catena) del camino un paiolo di rame, tutto sporco di caligine e pieno zeppo di marenghi d'oro. Il vecchietto, con un ghigno statanico, stava accanto al paiolo e con un grosso e nodoso bastone rimestava le monete, come si fa con la polenta. Ogni tanto smetteva di mescolare, si avvicinava a un fascio di vergella (bacchette di ferro pronte per essere ridotte in chiodi nelle fucine), ne tagliava piccoli pezzetti e li aggiungeva al contenuto del paiolo. Che stesse trasformando il ferro in marenghi d'oro? Questa fu la domanda che si posero gli sbalorditi spettatori dell'infernale operazione. I quali non ebbero più dubbi sull'identità dello strano personaggio quando si accorsero che al posto dei piedi aveva due grossi zoccoli bovini. Il Diavolo in persona! In preda al panico i pastorelli scesero a rotta di collo verso le baite del fondovalle ed avvisarono tutti quelli che incontrarono della loro allucinante scoperta. In fretta si organizzò un gruppo di coraggiosi che salirono fino alla baita del Diavolo per accertarsi del racconto dei ragazzi. Con ogni circospezione si avvicinarono all'edificio e guardarono attraverso la finestra. All'interno non c'era più nessuno, ma qualche indizio lasciava chiaramente intuire che in precedenza lì dentro si era lavorato parecchio! E così quel luogo divenne per tutti la baita del Diavolo.
Sciapèi e galòse
Nemmeno Ornica sfuggiva alla regola comune alle località di montagna per la quale tutto ciò che serviva alle persone veniva prodotto in casa. Attrezzi da lavoro, utensili da cucina, arredi propri della vita domestica erano realizzati da abili mani di artigiani che nel corso dei secoli seppero renderli sempre più funzionali, dando prova di intelligenza creativa e di ingegnosità. Alle donne spettava invece il compito di filare la lana e il lino per produrre quella "tela di casa" che era indispensabile per confezionare biancheria, lenzuola, tende, tovaglie e modesti abiti. Tutto questo, durante le lunghe serate invernali e nei ritagli di tempo resi liberi dalle asillanti occupazioni quotidiane nei campi, nei boschi o nele fucine. Anche le calzature erano di produzione domestica. Aiutandosi con attrezzi semplici, ma funzionali, si intagliava il legno di tiglio o di acero per farne zoccoli per tutta la famiglia. Tali zoccoli, detti sciarpèi, erano di due tipi. Quelli da calzare in casa erano detti pèsc, leggeri e rifiniti con morbida tomaia. Quelli da utilizzare fuori casa, sul ruvido acciottolato delle mulattiere, nei boschi o sulla neve, erano detti ferà, perché avevano la suola rinforzata con grossi chiodi semisporgenti che permettevano di camminare più agevolmente. Ancora più robuste erano le galò?e costituite da pezzi di legno scavati a froma di scarpa e chiusi da robusta tomaia. Testi Tarcisio Bottani - Foto Manzoni e Galizzi - Annuario C.A.I. alta Valle Brembana - 2003 |
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