Le trote del "Vescov" dopo le navi di Winston
di Bernardino Luiselli
SAN GIOVANNI BIANCO - ESTATE '45.
Il 6 gennaio 2006 è morto, novantunenne, a Genova "l'uomo che sabotò l'orgoglio inglese" ("il Giornale" 7 gennaio). Egli soggiornò a San Giovanni Bianco – come ricordano il sottoscritto e qualche altro attempato concittadino dello Zignù – nei primissimi mesi del (secondo, ovviamente) dopoguerra. Ne parleremo fra poco.
A coloro che, durante il conflitto mondiale, erano anche solo alunni delle elementari, il nome del comandante Luigi Ferraro, al pari di quelli di Durand de La Penne e di Fecia di Cossato, evoca imprese di nostri marinai che riscossero, per abilità e audacia, l'ammirato rispetto del nemico, non ultimo quello di Winston Churchill che, talvolta, sapeva mostrarsi cavalleresco. Genovese, classe 1914, volontario al fronte al comando di una batteria costiera della Regia Marina, Ferraro dall'artiglieria viene assegnato, nel '43, al reparto sabotatori e spedito in Turchia. Cavalcando, con perizia, i siluri pilotabili, cui peso e forma avevano guadagnato il nomignolo di "maiali", affonda quattro navi britanniche all'ancora nel porto di Alessandretta. Nella città cosmopolita egli vive mimetizzato negli abiti di un insospettabile impiegato della nostra ambasciata, gagà e barzellettiere. Alla "Primula rossa" in scafandro le spedizioni notturne ai danni della Royal Fleet fruttano quattro medaglie d'argento, commutate poi in un'unica medaglia d'oro al valor militare. Durante le azioni belliche cerca sempre di risparmiare vite umane.
Infuriando la guerra civile, mai sparò un colpo contro gli Italiani. Lo sottolinea Ferruccio Repetti, autore dell'articolo cui s'è accennato sopra. ""Dopo l'8 settembre di quello stesso tragico 1943 – narra il giornalista -, quando quelli come lui non se la sentono di cambiare in un amen la rotta al siluro, Ferraro deve smettere di fare il bellimbusto. Pensa di essere coerente schierandosi nelle file della Decima Flottiglia Mas. Lo spiegherà molto più tardi, a La Spezia, quando i capelli sono diventati tutti bianchi e le vendette solo brutti ricordi: "Diventa sempre più difficile iniziare un qualcosa da una parte e poi finirla dall'altra, senza bene capire il perché". Non è un modo di dire, lo riconoscono anche i combattenti della parte avversa. D'altronde – continua Repetti – Ferraro, d'accordo coi partigiani che dovevano essere i suoi nemici, salvò tanti uomini e impianti dalla rappresaglia nazista"". Smette l'uniforme che ha toccato appena i trentun anni. Ma non si sente affatto un reduce rassegnato a campare di reducismo. Decide perciò di valersi delle sue condizioni e della sua esperienza per fabbricare attrezzature subacquee che rappresentino una radicale innovazione di quelle in uso: la maschera "Pinocchio" e le pinne "Rondine", oggi diffusissime, sono invenzioni sue. Forse i prototipi li sperimentò nel Brembo. E qui dovremmo entrare in scena noi. Prima della rievocazione, però, do per un attimo ancora la parola a Repetti. ""E cominciamo tutti a chiamare lui "il professore" per via dei corsi d'istruzione che tiene, fin dai tempi della prima Scuola sommozzatori civili, per Enti di Stato, vigili del fuoco, carabinieri, Guardia di finanza, Genio Militare"". Ed ora il flash-back sulle ali di "solo me ne vo per la città", disco dell'estate '45, incandescente in ogni senso.
San Giovanni Bianco nel 1955
Undicenne, sto con una torma d'altri ragazzi sulla proda del fiume. Supini, dopo l'ultima nuotata di quel pomeriggio, sui massi caldi di sole, non perdiamo d'occhio i tafani-kamikaze in volteggio sopra i nostri corpi magri, protetti soltanto dai calzoncini. La sponda sinistra, nel tratto dal Ponte dei Frati al lieve declivio dominato dalla casa dei Sangalù, bianca e romita, è la spiaggia più frequentata, è à la page, gaiamente movimentata talvolta dai muli del Papòt in lavaggio. La crème dei bagnanti è formata da signorinelle in fiore nei costumi alla Esther Williams, la diva acquatica di Holliwood, e da giovanotti, al momento senza lavoro, ma desiderosi di rifarsi dai tempi duri della naja e del campo di prigionia. Aspirazione verosimilmente condivisa dai soldati del reparto USA stanziato a San Pellegrino, allegri erogatori di chesterfields che sulle jeep, di tanto in tanto, raggiungono "the beach". Da uno di loro ho ricevuto la mia prima tavoletta di chewing-gum. Sotto le antiche arcate, nelle acque smeraldine, si vedono numerosi i pesci guizzare. E' la nostra piscina.
"Giuro, ada chel là!" all'esclamazione del compagno i nostri sguardi scattano all'unisono nella direzione del suo. Cribbio, sul pilastro della sponda opposta c'è ritto l'"Uomo mascherato". Prima, fuorché nei fumetti, chi della ghenga della Via Stoppi – ma anche di quella della Via Menarelli – s'era imbattuto in un sub? Nemmeno l'estensore di queste righe, nonostante la prolungata dimora a San Remo a motivo dell'impiego paterno, era andato più in là del palombaro del pontone di drenaggio del porto. Dalla figura atletica e dai pantaloncini blu riconosciamo quel giovane signore con pizzetto biondo-castano che poco prima c'è passato accanto, scherzando col frugoletto biondo che gli sguazzava a due passi. Questi ora gli parla dal pilastro sulla nostra riva. Circospetti, noi ci si muove verso il ponte. Più che gli strani occhialini che gli coprono quasi interamente il viso e quelle enormi zampe d'anatra in cui ha infilato i piedi, dell'equipaggiamento del misterioso personaggio, c'incuriosisce l'aggeggio che impugna. Di certo si tratta di un'arma, ma di così non ne abbiamo viste mai. Essì che, fra Wermacht, miliziani varii della Repubblica Sociale, partigiani eccetera, a fucili e mitra ci siamo fatti l'occhio. Questa qui, di primo acchito, rammenta una "machine-pistole", più lunga ed esile però, senza il caricatore e con una specie di "pirù" (forchetta) alla bocca della canna.
Il signore espirò ed inspirò profondamente. E si calò in acqua. Battute, ammiratisimo da noi che al massimo ce la cavavamo "a cagnì" e "a spada", alcune bracciate in perfetto "crawl", s'immerse, prendendo a nuotare in direzione della diga dell'"Orobica". Risalendo il greto senza più titubanze, ne seguivamo, col biondino, le evoluzioni controcorrente. Lo scorgemmo bloccarsi un attimo e armeggiare rapido col suo moschetto-balestra. Poi riaffiorò e noi rimanemmo stupefatti alla vista di una bella trota penzolante dal dardo forcuto che l'aveva trapassata. Sceso di nuovo in acqua, fece un'altra preda. Tornato a riva, qualcuno del capannello, che s'era andato infoltendo attorno a noi, gli suggerì di fare una battuta nel profondo stagno pescoso allargantesi sotto lo sfioratore. Rispose, sorridendo,
che per quel giorno bastava.
In quel "fongarù" si tuffò – così mi raccontarono più tardi gli amici presenti all'evento – di lì ad alcuni giorni: per ripescare trote e temoli, una mezza dozzina, rimasti incagliati in un anfratto del fondale roccioso, sbattuti lì dallo scoppio di un ordigno a carburo (ma, secondo taluno, trattavasi di bomba a mano). A lanciarlo era stato uno di noi, dei più grandi della banda, sfidando le rappresaglie del "Vescov". Era costui il gagliardo e arcigno guardiano della diga sulla quale egli convintamente vantava una sorta di diritto feudale de captando pisces, estendendosi sino al Ponte dei Frati. Risalito in superficie, il munifico fiocinatore, tenendo i pesci infilati in un rametto di salice, s'avvicinò al bombarolo, e "Tò – gli disse – portali alla tua mamma". Il ragazzo s'allontanò estasiato con l'argenteo bottino: perdurava all'epoca, severo, il razionamento annonario. Che l'"Uomo mascherato" fosse il capitano di corvetta Luigi Ferraro lo si seppe anni dopo. Confusamente, allora, diffusa da "radio-scarpa", correva in paese la voce che era un ufficiale dei servizi segreti, asso della guerra sottomarina. Be', non è che si fosse poi tanto fuori mira. Abitava, questo era sicuro, nella Villa Alexandra, con il figlioletto e la moglie, una graziosa signora. Nelle sue esplorazioni nel Brembo, aveva notato il pericoloso deterioramento dei seicenteschi pilastri. Avvertì il Comune, che provvide. Può darsi che se il pittoresco Ponte dei Frati è tuttora in piedi lo si debba all'affondatore di Alessandretta.
tratto dall'Annuario 2005 del C.A.I. alta Valle Brembana
|